Andrea Contrini Fotografia
Le fortezze Bastiani della Val d'Adige
Viaggio tra i forti italiani e austriaci nell'alto veronese,
costruiti in previsione di una grande battaglia che non si sarebbe mai combattuta.
Forte Wohlgemuth di Rivoli Veronese in una notte di tempesta. Costruito dall'esercito austriaco nel 1852 sopra le rovine di un castello medievale, è l'unico dei forti della Val d'Adige a essere conservato e sede di iniziative culturali.
La scala elicoidale a collegamento dei piani a Forte Wohlgemuth. Costituita da una grande torre cilindrica, la fortezza disponeva di diciassette cannoni in grado di aprire il fuoco a 360°.
Lo scheletro di Forte Mollinary si erge in posizione dominante sopra la profonda gola della Chiusa di Ceraino (a sinistra). Fu costruito dagli austriaci a metà del XIX secolo sul fianco di Monte Pastello, in modo che il tiro della sua artiglieria potesse incrociare quello di Forte Wohlgemuth e Hlawaty. Questa micidiale trama di fuoco rimase tracciata solo sulle carte degli strateghi asburgici.
Luci del tramonto illuminano le pareti di rosso ammonitico di Forte Mollinary. Le fortificazioni austriache erano spesso realizzate con pietre pentagonali che conferivano alla struttura una maggiore stabilità. Verso la fine della Seconda guerra mondiale, il forte fu squarciato dalla deflagrazione di materiali esplosivi abbandonati dall'esercito tedesco in fuga. E così è rimasto fino ai giorni nostri, con le strutture mutilate e pericolanti.
Le rovine di Forte Mollinary guardano verso la piana di Rivoli Veronese. Al centro la collina dove sorge Forte Wohlgemuth.
Ambienti in parte collassati del forte austriaco intitolato al generale Johann von Hlawaty. Con l'annessione del Veneto al Regno d’Italia nel 1866, il forte - al pari del Wohlgemuth, del Mollinary e del Forte della Chiusa - passò in mani italiane. Le modifiche attuate alla struttura erano volte a invertire la direzione del tiro delle artiglierie: verso nord, anziché verso sud.
Reticolati arrugginiti marcano l'area perimetrale di Forte Hlawaty. Al di là il fondovalle con il fiume Adige e a sinistra Monte Magnone, dove sorge il forte italiano San Marco.
Nella stretta gola di Ceraino, in cui termina la Val d'Adige, le auto sfrecciano verso Verona: non fanno caso ai monconi di pietra che premono contro la parete del Monte Pastello. Costruito tra il 1849 ed il 1851 sopra un antico fortilizio veneziano, il Forte della Chiusa era un elemento cardine del sistema difensivo austriaco: sbarrando la stretta forra, sia la strada postale che la ferrovia erano costrette a passare entro le sue mura attraverso varchi presidiati, che all'occorrenza diventavano
Sorte analoga al Forte della Chiusa è toccata all'opera italiana della Tagliata d'Incanal, presso l'abitato di Canale sulla riva sinistra dell'Adige: nel secondo dopoguerra fu sventrata per permettere l’allargamento di quella strada che aveva sorvegliato per tanti anni tra il XIX e il XX secolo.
Le possenti mura del Forte San Marco si ergono a picco sulla Val d'Adige: dalle sue orbite ormai vuote spuntavano dodici bocche da fuoco da 149 mm. Completata nel 1913, quest'opera italiana rimarrà per sempre muta, ad eccezione di qualche colpo contro i bombardieri austriaci diretti a Verona durante il primo conflitto mondiale.
La struttura di Forte San Marco fu progettata in modo da adattarsi al crinale di Monte Magnone, a 451 metri di altitudine. In zona arretrata dal fronte, il forte fu risparmiato dalla furia devastatrice della Grande Guerra: la sua elegante architettura in blocchi di pietra e calcestruzzo non avrebbe certamente retto all'urto delle artiglieria pesanti del primo Novecento.
Una lapide con bassorilievo ricorda i reparti Zappatori del Genio e del Battaglione alpino che nel 1880 realizzarono la strada che si inerpica su Monte Magnone: con i suoi quaranta tornanti collega la piana di Rivoli Veronese al Forte San Marco.
Forte italiano di Cimo Grande: la ripida scalinata sotterranea che unisce le caserme al blocco delle batterie d'artiglieria. Ricavata nelle viscere di uno sperone roccioso nei pressi di Spiazzi di Monte Baldo, era una fortezza moderna e tecnologicamente avanzata. Costruita tra il 1905 ed il 1914, durante la Prima guerra mondiale i suoi potenti cannoni da 149 mm non spararono nemmeno un colpo. Dismesso dal Demanio militare venne in parte adibito a colonia per vacanze e poi abbandonato.
Troneggiante su una cima della dorsale di Monte Baldo, a 1.675 metri di altitudine, Forte Naole fu edificato dall'esercito italiano nel 1913 in un territorio fino ad allora prerogativa di pascoli e malgari. I suoi artiglieri avevano il compito di sbarrare un'eventuale avanzata asburgica lungo il massiccio baldense ma il rumore della battaglia giunse solo come un eco lontano, troppo distante per aprire il fuoco, troppo vicino per abbandonare la posizione.
Mimetizzato tra i pascoli dei monti Lessini nei pressi di Fumane, Forte Masua era il caposaldo più avanzato di tutto il sistema difensivo italiano della Val d'Adige. Nonostante ciò, nel 1916, la sua posizione arretrata dalla linea di combattimento portò alla scelta di disarmarlo e di adibirlo a deposito.
Le imponenti strutture ottocentesche di Forte Masua resistono all'unico assedio che abbia mai visto, quello della vegetazione.
Sotto lo sguardo severo di Forte Wohlgemuth (a sinistra sulla collina), l'autostrada del Brennero passa per il campo di battaglia napoleonico del 1797, le fortificazioni asburgiche di metà XIX secolo e quelle sabaude del periodo successivo: più di un secolo di storia attraversato in un lampo.
Disseminati tra i vigneti del fondovalle, arroccati sui pendii della Lessinia o troneggianti sulle creste del massiccio del Baldo, imponenti scheletri di pietra e calcestruzzo segnano gli antichi confini del perduto Impero asburgico e del Regno d'Italia.
La spinta propulsiva a erigere un sistema di fortezze nella parte veronese della Val d'Adige avvenne durante il Risorgimento quando, con la prima guerra d'indipendenza, le truppe del Regno di Sardegna arrivarono a minacciare la città di Verona, allora territorio del Regno Lombardo-Veneto (subordinato all'Impero austriaco).
L'area attorno l'abitato di Rivoli Veronese, cinquant'anni prima teatro della celebre battaglia napoleonica, venne fortemente militarizzata per impedire un aggiramento nemico dei baluardi di Peschiera del Garda e, in caso di evacuazione di Verona, proteggere la ritirata verso nord.
Tutto cambiò nel 1866, quando il trattato di Vienna sancì la fine della terza guerra d'indipendenza portando l'annessione del Veneto al Regno d’Italia: l'esercito italiano non si limitò a prendere possesso dei quattro forti del "gruppo di Rivoli" ma proseguì l'opera fortificatoria con l'intento di proteggere la nuova frontiera (l'attuale confine tra Trentino e Veneto).
Sia i forti austriaci che quelli italiani furono eretti nel nome della potenza militare, fiori all'occhiello dell'ingegneria dell'epoca e simboli di invincibilità. Ma il destino non diede loro né gloria, né fama, relegandoli a un'esistenza analoga a quella dell'immaginaria Fortezza Bastiani, protagonista del romanzo "Il deserto dei Tartari" di Dino Buzzati: gli uomini delle guarnigioni, fissi ai posti di guardia e alle artiglierie, attesero per anni un attacco nemico che non sarebbe mai giunto. E quando nel 1915 la guerra scoppiò sul serio, il fronte si aprì in Trentino: troppo lontano per prendervi parte.
Oggi la maggior parte delle strutture è in stato di abbandono, alcune utilizzate a scopo civile, altre in parte demolite.
L'idea per Le fortezze Bastiani della Val d'Adige ha preso forma nell'estate 2019 quando, innanzi a Forte Mollinary, intuii delle analogie con il libro di Buzzati. Non era la prima volta che affrontavo l'argomento "fortificazioni" con la macchina fotografica in mano: avevo già esplorato gli sbarramenti della Prima guerra mondiale sugli altipiani cimbri del Trentino e dei Sette Comuni (fotografie pubblicate nel libro I Guardiani del Silenzio del 2015), oltre a quello di Verdun in Francia (National Geographic Italia, 2016). Ma le strutture dell'alto veronese avevano una storia e un'architettura molto diversa, che volevo raccontare attraverso l'obiettivo fotografico.
Riprendendo le alte mura assediate dalla vegetazione, le buie gallerie sommerse dai detriti ma anche i tramonti che inondano di luce gli spalti, mi sono accorto di come lo scorrere del tempo ha conferito a questi luoghi il fascino che la storia gli ha negato.